Vitamina K, la promessa contro le fratture da osteoporosi

24 Marzo 2021

Diverse evidenze sperimentali sembrano indicare un ruolo importante giocato dalla vitamina K nel metabolismo osseo. Un suo deficit, infatti, è stato collegato ad aumentato rischio di fratture in studi osservazionali e trial clinici. Per fare il punto, un gruppo di lavoro guidato da Maria Fusaro, ricercatrice presso il Cnr di Pisa e l’Università di Padova, ha realizzato una review pubblicata su Nutrients dei dati a oggi disponibili, suggerendo la necessità di avviare ulteriori studi con sufficiente potere statistico per fare luce in un ambito clinico sicuramente promettente.

“Sono tre le forme di vitamina K”, sottolinea Fusaro. “La K1, o Fillochinone (Pk, ndr), contenuta prevalentemente nelle verdure a foglia verde; la K2, o Menachinone (Mk), presente in prevalenza nei cibi fermentati quali, per esempio, burro e formaggi. Tra questi, il natto, un cibo giapponese costituito da fagioli di soia fermentati su Bacillus subtilis, ricco di Mk-7, l’integratore più venduto a livello internazionale. Una parte di menachinoni deriva dalla flora batterica intestinale e solo il Mk-4 deriva dal metabolismo del fillochinone. Il menadione, infine, di origine sintetica”.

Purtroppo, la vitamina K non si può dosare in laboratorio, come normalmente si fa, per esempio, con la vitamina D. Non c’è, infatti, una standardizzazione della metodica per l’identificazione dei diversi vitameri.

“Sapendo però che agisce come un coenzima della gamma glutamil carbossilasi, catalizzando la carbossilazione di diverse proteine dipendenti dalla vitamina K, si ricorre alla misurazione di un surrogato, ovvero la sua quota decarbossilata rappresentati dai Pivaka o Protein induced by vitamin K absence/antagonism-II, l’osteocalcina, o Bone Gla Protein e la Matrix Gla Protein, queste ultime coinvolte nel metabolismo osseo e vascolare”, precisa Fusaro.

In Usa, le dosi raccomandate sono, di 120 µg/die nei maschi e 90µg/die nelle femmine. In Italia si suggeriscono 140 µg/die indipendentemente da sesso ed età. L’Efsa indica 45 µg/die di Mk-7 o 105 µg/die complessivi, indipendentemente dalla forma di vitamina K. La realtà clinica suggerisce anche l’opzione di dosaggi molto più alti, come per esempio 1.080 µg/die, in caso di insufficienza renale allo stadio terminale. Positivo il fatto che ad oggi, anche a tali dosi, non si segnalano problemi di sicurezza.

La vitamina K, attraverso la carbossilazione dell’osteocalcina, permette la corretta mineralizzazione delle ossa. Inoltre, per Mk4, di recente si è evidenziata un’azione come ligando del Steroid and xenobiotic receptor espresso a livello degli osteoblasti, un effetto che agevola la produzione di proteine del collagene, componente fondamentale per la qualità dell’osso.

“Nella nostra review abbiamo preso in esame solo gli studi che avevano come outcomes l’evento fratturativo” prosegue Fusaro. “In maggioranza sono studi giapponesi, perché lì già dal 1960 il menatetranone, ovvero l’Mk4, è un farmaco per l’osteoporosi e molti lavori ne evidenziano una correlazione con la riduzione delle fratture. C’è anche un trial clinico randomizzato, ben disegnato, dell’Università di Toronto che sottolinea come in donne in menopausa con osteopenia, trattate con 5 mg/die di Pk, si registri una riduzione di oltre il 50% di eventi fratturativi dopo due anni di follow-up, pur con densità minerale ossea invariata”.

Quali indicazioni, dunque, per identificare una carenza e suggerire un’integrazione?

“Purtroppo, non essendoci sistemi che quantifichino i fabbisogni specifici dei vari vitameri K del singolo individuo, è difficile stabilire quando e di quanto è necessaria una supplementazione”, conclude Fusaro. “Considerando gli studi di intake e la dieta del mondo occidentale, in rapporto all’età verosimilmente dovremo tutti considerare una supplementazione con vitamina K. Sono necessari ulteriori studi sugli effetti della supplementazione di vitamina K a dosi fisiologiche e farmacologiche e su quale sia la dose richiesta per garantire la salute ossea e vascolare. In base alle mie conoscenze posso suggerire 5 mg/die di Pk nella popolazione generale, sia in prevenzione che nella forma terapeutica, dosi che possono arrivare a 10 mg/die in caso di insufficienza renale di grado terminale. Per il menatetranone-4, 45 mg/die: sui pazienti con insufficienza renale cronica invece, nessun dato. Infine, per Mk-7, 360 µg/die nella popolazione generale con aumento a seconda del grado di insufficienza renale’.

Nicola Miglino

 

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