Diverse evidenze sperimentali sembrano indicare un ruolo importante giocato dalla vitamina K nel metabolismo osseo. Un suo deficit, infatti, è stato collegato ad aumentato rischio di fratture in studi osservazionali e trial clinici. Per fare il punto, un gruppo di lavoro guidato da Maria Fusaro, ricercatrice presso il Cnr di Pisa e l’Università di Padova, ha realizzato una review pubblicata su Nutrients dei dati a oggi disponibili, suggerendo la necessità di avviare ulteriori studi con sufficiente potere statistico per fare luce in un ambito clinico sicuramente promettente.

Già uno studio del 1996 aveva dimostrato che il livello sierico di fillochinone, la forma dietetica più abbondante della vitamina K, piuttosto che la carbossilazione dell’osteocalcina, era significativamente più basso nei pazienti anziani con frattura del collo del femore e nell’osteoartrite rispetto al controllo sano, suggerendo che la vitamina K fosse un potenziale marker di salute scheletrica.

I benefici cardiovascolari della vitamina K potrebbero dipendere non dalla forma k1 (fillochinone) ma dalla K2 (menachinone). Questo quanto sostenuto da un gruppo di ricercatori olandesi, britannici e francesi che hanno raccolto ed esaminato dati da un pool di poco più di 100 mila persone affette da cardiopatia afferenti a tre database: European prospective investigation into cancer and nutrition (Epic)-Cvd case-cohort study; CardiogramplusC4D a Uk Biobank.

Mobilità limitata e disabilità negli anziani sono correlate a bassi livelli di vitamina K. Questi i risultati di uno studio condotto da ricercatori del Jean Mayer Usda Human nutrition research center on aging (Hnrca) alla Tufts University, Massachussets e pubblicati on line sul Journal of Gerontology: Series A

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