Covid-19, studio italiano: vitamina D utile negli uomini in corso di malattia

20 Gennaio 2022

La somministrazione di 1,25(OH)2-vitamin D3 potrebbe rivelarsi utile nel trattamento di pazienti maschi colpiti da Covid-19. Queste le conclusioni di uno studio italiano multicentrico che ha coinvolto 117 pazienti, suddivisi in persone con malattia in corso, guariti e mai infettati, che ha voluto indagare il rapporto tra livelli ematici di vitamina D e grado di malattia, nonché la relazione con i valori di interleuchina-6 (Il-6), molecola coinvolta nella tempesta citochina che caratterizza l’evoluzione clinica dell’infezione. I risultati dello studio sono stati pubblicati di recente su Nutrients.

Ne abbiamo parlato con Erika Cione, docente di Biochimica e Biologia molecolare presso l’Università della Calabria, tra i coordinatori della ricerca.

P.ssa Cione, da dove nasce l’idea della vostra ricerca?

Assieme ai colleghi Luca Gallelli dell’Università Magna Grecia di Catanzaro e Filippo Luciani, infettivologo dell’Ospedale Civile dell’Annunziata di Cosenza, stavamo analizzando i dati anticorpali in pazienti guariti da Covid-19. Erano tutti operatori sanitari e, tra questi, vi era un'infermiera in terapia con calcio e vitamina D per l'osteoporosi. Era l’unica a mantenere gli anticorpi circolanti oltre i nove mesi dopo infezione. I valori ematici della vitamina D, nella forma 25 idrossi, però, nonostante l’integrazione, risultavano “insufficienti”, a meno di un solo mese dall’infezione. Ricordiamo che la vitamina D presente in tutti gli integratori deve prima essere idrossilata nel fegato, dando 25 idrossi vitamina D, la forma che viene dosata nel sangue, e attivata poi nel rene in 1α, 25 idrossi vitamina D per evocare risposta biologica. Avevamo anche osservato nel paziente zero calabrese, maschio, con insufficienza renale, valori di vitamina D ematici adeguati ed elevatissimi livelli di Il-6.  Sappiamo che il virus evoca, nel nostro organismo, una forte risposta infiammatoria con rilascio di citochine, tra le quali, in particolare, proprio l’Il-6, tanto che di recente ne è stato approvato dalle autorità regolatorie un inibitore, il tocilizumab, proprio per la terapia del Covid.

Che tipo di studio avete disegnato e con quali obiettivi?

Su queste basi, abbiamo deciso di analizzare i livelli ematici di vitamina D e Il-6 in un campione di pazienti guariti da Covid-19, piuttosto che con la malattia in corso, e non Covid, ovvero negativi al tampone e al dosaggio IgG per Sars-CoV-2, iniziando così uno studio trasversale multicentrico.

Quali risultati avete potuto osservare?

Paradossalmente, nelle donne guarite dall’infezione i livelli di vitamina D, nella forma 25 idrossi, erano più bassi rispetto agli uomini ma la prognosi più favorevole. In esse, anche i livelli di Il-6 erano normali. Rispetto agli uomini, le donne avevano una carenza più pronunciata di vitamina D, ma allora perché stavano meglio? Ipotizzammo che la forma attiva, l’1α,25 diidrossivitamina D, fosse idrossilata nelle donne con maggiore efficienza rispetto agli uomini. Negli uomini, infatti i livelli di vitamina D non diminuivano quindi non “fluttuavano”, non garantendo livelli adeguati della forma attiva, l’1α,25 diidrossi di vitamina D. Inoltre, i livelli di Il-6 erano più elevati rispetto alle donne. Somministrando l’1α,25 diidrossivitamina D ai pazienti con infezione in corso e con insufficienza renale cronica abbiamo registrato una normalizzazione dei livelli di Il-6 e migliorato le condizioni cliniche legate all’infezione.

Sulla base di questi dati e di quanto presente in letteratura, che ruolo andrebbe attribuito alla vitamina D, in prevenzione come in terapia rispetto a Covid-19?

La somministrazione dell’1α,25 diidrossivitamina D, stando attenti al rischio di ipercalcemia, potrebbe essere considerata un'indicazione adeguata per il trattamento de gli uomini colpiti da Sars-CoV-2. In generale, è da sottolineare che tale pratica risulta utile con la malattia in corso ma non come prevenzione.

Nicola Miglino

 

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