Due studi tornano a mettere al centro della discussione il ruolo del sale come fattore di rischio cardiovascolare e predittivo di mortalità. Da una parte, si evidenziano i pericoli di un consumo eccessivo. Dall’altra, si puntano i fari sui rischi di consumo troppo basso.

Stanno facendo molto discutere i dati provenienti da uno studio internazionale multicentrico, pubblicato a inizio aprile da The Lancet, secondo i quali non c’è correlazione tra maggior consumo di sale e peggioramento clinico nei pazienti con scompenso cardiaco. Miglioramenti si segnalerebbero soltanto sul fronte di alcuni indicatori legati alla qualità di vita.

Cina e Usa sono i Paesi che possono mettere a rischio l’obiettivo che l’Oms si è data di ridurre entro il 2025 del 30% il consumo di sale a livello mondiale. Il dato emerge da uno studio pubblicato su Bmj open che ha esaminato decine di migliaia di prodotti trasformati a base di carne e pesce presenti nei supermercati di cinque nazioni che proprio l’Oms sta monitorando per verificare il trend rispetto agli obiettivi prefissati: Usa, Uk, Australia, Cina e Sud Africa.

Gli italiani, nell’arco di dieci anni, hanno ridotto il consumo di sale del 12%, pur rimanendo lontani dai livelli raccomandati. Secondo quanto emerge dai risultati del Progetto Cuore, pubblicati su Nutrition, metabolism and cardiovascular diseases, si è passati, infatti, da un’assunzione media giornaliera di 10,8 g negli uomini e 8,3 g nelle donne nel 2008-2012 a, rispettivamente, 9,5 g e 7,2 g nel 2018-2019.

Pagina 2 di 3
Top
Questo sito utilizza i cookies, che consentono di ottimizzarne le prestazioni e di offrire una migliore esperienza all'utente. More details…