È decisamente pericoloso il legame tra bassi livelli di vitamina D e Covid-19. L’associazione era stata ipotizzata molto precocemente rispetto all’esplosione in Italia della pandemia, con una lettera pubblicata a marzo 2020 sul British medical journal. Il tema è tornato alla ribalta durante le giornate della 5° International Conference on Controversies in Vitamin D tenutasi a Stresa dal 15 al 18 settembre scorsi.

La supplementazione con vitamina D non aiuta ad alleviare sintomi e a migliorare la qualità di vita nei pazienti con sindrome dell’intestino irritabile (Ibs). Ciononostante, si tratta di pazienti molto spesso in condizione di ipovitaminosi D e a rischio di caduta e frattura ed è pertanto raccomandabile integrare quando necessario a favore di una migliore condizione generale di salute. Questi i risultati di uno studio clinico randomizzato, in doppio cieco, controllato vs placebo, condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Sheffield e pubblicato sull’European journal of nutrition.

Il Gioseg (Glucocorticoid induced osteoporosis skeletal endocrinology group) ha da poco pubblicato un documento su Covid-19 e vitamina D curato da alcuni dei più autorevoli esperti italiani in materia. La necessità nasce dal dibattito in corso sul potenziale impatto negativo dell’ipovitaminosi D sull’incidenza dell’infezione da Sars-CoV-2 e sulla prognosi del Covid-19.

Un metabolita del colecalciferolo (vitamina D3), il 25-OH-D3 potrebbe rivelarsi un’ottima soluzione per ovviare alla carenza di vitamina D in pazienti obesi o sottoposti a by-pass gastrico. L’indicazione giunge da uno studio pilota americano di farmacocinetica pubblicato sull’American journal of clinical nutrition.

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