Trapianto di microbiota fecale, il Lancet mette in guardia sul rischio Covid-19

31 Marzo 2020

Screening rigoroso dei donatori di feci contro il rischio di trasmissione di Covid 19 in caso di trapianto di microbiota. La proposta arriva da un panel di esperti attraverso la rivista The Lancet

Il trapianto di microbiota fecale è un trattamento che ha preso sempre più piede nella gestione dell'infezione ricorrente da Clostridium difficile in virtù dei maggiori successi ottenuti rispetto alla terapia antibiotica.

Tutto il settore dei trapianti, da quelli d’organo a quelli di tessuto o cellule, ha dovuto fare i conti con l’emergenza in corso, prendendo provvedimenti cautelativi sui vari fronti. Già lo scorso anno alcuni esperti, tra cui alcuni di quelli che hanno ora preso la parola su Lancet, hanno diramato raccomandazioni su come sottoporre a screening donatori di microbiota fecale, attraverso una valutazione della storia clinica, test ematologici e analisi delle feci.

Ora chiedono un passo in più, ritenendo che il rischio di trasmissione di Sars-coV2 attraverso le feci potrebbe essere superiore a quello di altri trapianti di tessuti.

Le evidenze, infatti, indicano che il virus sia presente nelle feci e che queste rimangano positive più lungo di quanto non accada per le vie respiratorie. Un’ipotesi supportata dalla presenza in alcuni pazienti di sintomi gastrointestinali quali nausea, vomito e diarrea, suggerendo una possibile via di trasmissione oro-fecale.

Il trapianto di microbiota fecale, peraltro, non è classificato allo stesso modo in tutto il mondo: in alcuni Paesi viene considerato farmaco (Stati Uniti, Regno Unito e Francia), in altri tessuto (Italia) e in altri, come per esempio l’Australia, non è nemmeno prevista una regolamentazione specifica. Il rischio, dunque, è di avere un quadro normativo internazionale confuso, poco promettente rispetto a una profilassi standardizzata.

Secondo gli autori, in tutti i paesi, prima di ogni donazione, i medici dovrebbero innanzitutto valutare la presenza di sintomi tipici Covid-19 (febbre, affaticamento, tosse secca, mialgia, dispnea e mal di testa) nei 30 giorni precedenti. Allo stesso tempo, è necessario indagare se il donatore ha viaggiato in aree a rischio o è stato a contatto con persone contagiate o sospette nei 30 giorni precedenti.

In caso confermativo per uno di questi criteri, la donazione va rifiutata o, quanto meno, va ricercato il virus nelle feci con indagine Pcr (Polimerase chain reaction). Nei paesi endemici, invece, il test Pcr andrebbe effettuato di routine in tutti i donatori. In alternativa, le feci del donatore andrebbero conservate e messe in quarantena per 30 giorni prima dell'uso e rilasciate solo se il donatore non ha sviluppato sintomi. Infine, le banche delle feci dovrebbero effettuare controlli retrospettivi sui donatori.

Tali accorgimenti, si sottolinea dalle colonne di Lancet, andrebbero recepiti dalle Autorità sanitarie dei vari paesi, lasciando aperta la possibilità di aggiornamenti continui in relazione alle novità che gli scienziati mano a mano metteranno a disposizione.

Nicola Miglino

 

 

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