Binge eating disorder, caccia ai geni coinvolti

07 Aprile 2021

Da tempo i ricercatori stanno concentrando l’attenzione sulla correlazione tra fattori genetici e ambientali chiamati in causa nell’insorgenza del disturbo da alimentazione incontrollata o, come definito dagli anglosassoni, Binge eating disorder (Bed). L’ipotesi allo studio è che possano esserci dei polimorfismi genetici coinvolti nella fisiopatologia, ancora però tutti da chiarire, giacché emergono alcune evidenze ma gli studi dedicati sono ancora limitati. A mettere in fila quanto oggi disponibile in letteratura, un lavoro condotto dal dipartimento di Psicologia dell’Università di Roma "La Sapienza", pubblicato di recente su Nutrients. Ne abbiamo parlato con Lucia Manfredi, prima firma della ricerca.

D.ssa Manfredi, cosa intendiamo per Binge eating disorder e qual è la sua prevalenza nella popolazione?

Si tratta di un disturbo caratterizzato da perdita di controllo con conseguente assunzione di cibo rapida e ingente non seguita da comportamenti compensatori, quali, per esempio, autoinduzione del vomito. È il più diffuso tra i disturbi alimentari ed è ora incluso nella sezione principale del Dsm-V. La prevalenza è stimata intorno all’1% della popolazione generale, sia maschile che femminile.

Quali sono i fattori di rischio?

Sono molteplici e l’eziologia del disturbo è a oggi non chiara. I ricercatori sostengono che il Bed possa essere determinato da una combinazione di diversi fattori di rischio biologici e ambientali. Tra i primi troviamo, per esempio, la presenza di geni specifici. A questa, si aggiungono fattori psicologici e ambientali, quali l'immagine corporea e l'autostima, le esperienze sociali, la storia della salute familiare e talvolta altri disturbi mentali. Gli studi suggeriscono che le persone con disturbo da alimentazione incontrollata possano usare l'eccesso di cibo come un modo per regolare temporaneamente alcune emozioni negative, come rabbia, tristezza, noia, o ansia. Tuttavia, a seguito delle condotte di abbuffata, i soggetti sperimentano sensazioni di colpa e di disagio. Si crea così un circolo vizioso dannoso per la salute fisica e psichica del paziente.

Esiste un’ereditarietà nella comparsa del fenomeno?

Nonostante gli studi genetici pubblicati sul Bed siano pochi, poiché solo di recente è stato riconosciuto come categoria diagnostica ufficiale, le stime di ereditarietà basate sui gemelli indicano un’incidenza della componente genetica variabile tra il 39 e il 44%. Tuttavia, nessuno dei lavori sulla genetica dei disturbi alimentari preclude l'azione dell'ambiente in relazione a una predisposizione genetica. Infatti, come spiegato in precedenza, diversi fattori ambientali possono interagire con fattori genetici in molti modi, spesso complessi. È importante sottolineare che i geni non causano mai direttamente i comportamenti umani, ma possono contribuire, interagendo in modo complesso con l’ambiente, a creare fenotipi in grado di rendere vulnerabili allo sviluppo del disturbo.

Voi che tipo di analisi avete condotto?

Abbiamo effettuato una revisione sistematica della letteratura esistente, sino a settembre 2020, sui polimorfismi genetici maggiormente associati al Bed. I risultati sono stati eterogenei, mostrando diversi polimorfismi coinvolti. A causa del ridotto numero di articoli per ciascun gene non è stato possibile condurre una metanalisi e per tale motivo non abbiamo potuto implementare alcuna analisi statistica.

Quali risultati avete potuto evidenziare?

I principali risultati mettono in luce un ruolo predominante, trovato in un due gruppi di ricerca differenti, del polimorfismo Taq1a associato al sistema dopaminergico. Ulteriori dati significativi sono relativi al sistema serotoninergico e oppioide. Sembrano anche essere implicati alcuni polimorfismi associati ai geni che codificano per la melanocortina, per la grelina e per il fattore neurotrofico derivato dal cervello, o Bdnf. È importante sottolineare che sono necessarie ulteriori ricerche per poter confermare il ruolo di questi geni nella genesi del disturbo a causa del ridotto numero di articoli e della dimensione del campione.

In conclusione, quale può essere l’utilità di una “fotografia genetica” del paziente?

Al momento, i dati genetici disponibili sono troppo scarsi per un uso clinico. Per il futuro ci possiamo aspettare che specifiche configurazioni di polimorfismi genetici potranno essere utili come biomarcatori di vulnerabilità allo sviluppo del disturbo, sempre, tuttavia, in interazione complessa con altri fattori di rischio non-genetici.

Nicola Miglino

 

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