D.ssa Bonaccio, qual era l’obiettivo dello studio?
Abbiamo voluto studiare l’impatto di due classificazioni degli alimenti sulla mortalità a lungo termine in una popolazione generale italiana. Da un lato, l’indice alimentare che viene usato per realizzare il Nutriscore, un sistema di etichettatura dei prodotti alimentari pensato per semplificare l'identificazione dei valori nutrizionali e, dall’altro, la classificazione Nova, che invece punta a identificare gli alimenti ultra-processati. Con questo termine si indicano quei cibi fatti in parte o interamente con sostanze come, per esempio, proteine idrolizzate, maltodestrine, grassi idrogenati, che non vengono utilizzate abitualmente in cucina e che contengono generalmente diversi additivi, come coloranti, conservanti, antiossidanti, anti-agglomeranti, esaltatori di sapidità ed edulcoranti.
Che tipo di ricerca avete condotto?
Si tratta di uno studio epidemiologico osservazionale condotto nell’ambito dello studio Moli-sani, che dal 2005 al 2010 ha reclutato circa 25mila cittadini residenti in Molise, per conoscere i fattori ambientali e genetici alla base delle malattie cardiovascolari, neurodegenerative e dei tumori. In questa popolazione, siamo andati a vedere come l’alimentazione delle persone potesse influenzare il loro rischio di mortalità dopo circa 13 anni.
Quali risultati avete potuto osservare?
Abbiamo visto che sia il consumo di alimenti di scarsa qualità nutrizionale, sia quello di cibi ultra-processati, aumentano in modo rilevante il rischio di mortalità, in particolare per le malattie cardiovascolari. Quando però abbiamo tenuto conto congiuntamente sia del contenuto nutrizionale della dieta che del suo grado di lavorazione industriale, è emerso che quest’ultimo aspetto è quello più importante nell’evidenziare il maggiore rischio di mortalità. In realtà, oltre l’80 percento degli alimenti classificati come non salutari dal Nutriscore sono anche ultra-lavorati. Questo suggerisce che il rischio aumentato di mortalità non è da imputare direttamente o esclusivamente alla bassa qualità nutrizionale di alcuni prodotti, bensì al fatto che questi siano anche ultra-lavorati.
Che conclusioni se ne possono trarre?
Innanzitutto, che la qualità nutrizionale non è l’unico fattore da tenere in considerazione quando si analizza il rapporto tra alimentazione e salute. Se l’intento di questi sistemi di etichettatura è quello di aiutare le persone a compiere scelte alimentari più salutari, è necessario rivedere le attuali proposte al vaglio della Commissione europea. È vero che le lettere e i colori del Nutriscore aiutano a confrontare rapidamente prodotti della stessa categoria, permettendoci di scegliere quello migliore dal punto di vista nutrizionale, ma questo sistema non fornisce tuttavia nessuna indicazione sul grado di trasformazione dell’alimento. I nostri dati indicano che c’è bisogno di considerare non solo le caratteristiche nutrizionali, ma anche il grado di lavorazione dei cibi. Ecco perché pensiamo, anche in sintonia con altri ricercatori internazionali, che bisognerebbe integrare ogni sistema di etichettatura nutrizionale con informazioni riguardanti il livello di trasformazione.
Cosa suggerire, in termini di prevenzione?
Per una strategia realmente efficace, dobbiamo concentrarci soprattutto su quegli alimenti che il Nutriscore classifica come validi da un punto di vista nutrizionale ma che sono anche molto lavorati. È il caso, per esempio, di alcune bevande che, pur avendo un ridotto contenuto di zuccheri, risultando quindi adeguate sul piano nutrizionale tanto da conquistarsi una lettera B del Nutriscore, di fatto sono molto lavorate. Ma anche yogurt e dolci freddi, che vantano pochi grassi ma contengono una lista corposa di additivi alimentari. Non ultimo, è fondamentale recuperare l’antica lezione della Dieta Mediterranea, che di fatto è basata principalmente su prodotti freschi o minimamente lavorati.
Nicola Miglino