Se sugli scaffali sono presenti prodotti ad alto contenuto di sale sarà ben difficile, secondo le premesse degli Autori, che la dieta conseguente non ne risenta.
Ecco così che sono state scandagliate le etichette nutrizionali di 26.500 cibi processati a base di carne e pesce nelle cinque nazioni, verificando la quantità di sale presente per 100 g di prodotto e classificandola sulla base del sistema a semaforo inglese: basso (verde), 120 mg/100 g; medio (giallo) 120-599 mg/100 g; alto (rosso), oltre i 600 mg/ 100 g.
In cima alla classifica dei “peggiori”, la Cina, con contenuto medio complessivo per tutti i prodotti pari a 1.050 mg/100 g, seguita da Usa, Sud Africa, Australia. Ultimo, il Regno Unito, con i suoi 432 mg/100 g. Dati simili, si sono visti anche nell’analisi delle categorie pesce/carne separate.
Interessante il dettaglio delle differenze tra i vari paesi su prodotti simili. Per esempio, il contenuto di sale del pollo arrosto in Cina era 4,5 volte quello dello stesso prodotto nel Regno Unito (893 mg/100 g vs 197 mg/100 g). Per contro, il contenuto di sale in salumi, carne e pesce surgelati e carne secca in Cina è risultato il più basso di tutti e cinque i paesi.
All’esame dell’etichetta a semaforo, bocciatura su tutti i fronti: verde solo per il 12% dei prodotti in Regno Unito e Stati Uniti e per il 4-5% in Cina, Australia e Sud Africa.
In sostanza, il consumo di 100 g/die di questi prodotti comporterebbe, rispetto a quella massima raccomandata dall’Oms (2 g/die), un’assunzione giornaliera media di sodio pari al 47% in Cina e Stati Uniti, 37% in Sud Africa, 35% in Australia e 27% nel Regno Unito.
Così commenta Pasquale Strazzullo, presidente Sinu (Società italiana di nutrizione umana: “L’eccesso di sale nell’alimentazione, fra tutti gli errori alimentari, costituisce il principale responsabile dell’eccesso di morti per tutte le cause. La riformulazione dei target alimentari per il sodio da parte dell’Fda, che ha fatto seguito a una recente raccomandazione dell’Oms, ha riportato l’attenzione sulla necessità che l’industria alimentare riduca progressivamente l’elevato contenuto di sodio di molti alimenti di largo consumo. Alimenti essenziali come la carne, il latte, i cereali, lo stesso pesce e ovviamente le verdure contengono in natura soltanto pochi milligrammi di sodio ma, una volta processati e trasformati in pane, formaggi, salumi, carni, pesce e verdure in scatola, i milligrammi diventano grammi di sale a porzione.
Lo studio appena pubblicato su Bmj open, mostra che nel Regno Unito e in Australia, Paesi che hanno fissato per primi dei target per il contenuto di sodio di molte categorie di prodotti alimentari, questi ultimi contengono mediamente meno sale rispetto agli stessi prodotti di altri Paesi. Questo è molto importante in quanto l’apporto di sale dagli alimenti confezionati rappresenta anche in Italia almeno i 2/3 del quantitativo ingerito in totale. È pur vero che il nostro Paese ha compiuto un piccolo passo avanti sulla via della riduzione dell’abuso di sale, passando da circa 9,6 a circa 8,4 grammi al giorno, come risulta dalle due indagini di popolazione condotte a dieci anni di distanza con il supporto del ministero della Salute. Restiamo però ancora ben lontani dal livello di 5 g al giorno raccomandato dall’Oms e dai Larn, corrispondenti a 2 g/die di sodio.
Questo obiettivo potrà essere raggiunto soltanto riducendo in misura consistente il quantitativo di sodio aggiunto durante il processo di trasformazione e confezionamento degli alimenti. In attesa che anche in Italia vengano fissati dei target specifici per prodotto come raccomandato dall’Oms, l’unica cosa che il consumatore può fare è quella di scegliere i prodotti meno salati, leggendo l’etichetta alimentare che obbligatoriamente riporta il contenuto di sale per 100g di alimento o meglio a porzione. Questa è già una scelta importante ed efficace”.
Nicola Miglino