Nel primo caso, parliamo di uno studio pubblicato sull’European heart journal, che ha preso in esame i dati di circa 500 mila persone all’interno del database Uk Biobank, che avevano compilato un questionario sulla frequenza di aggiunta di sale durante i pasti. In base al consumo sono stati suddivisi in quattro gruppi: raro/assente, saltuario, frequente e costante. Dopo un follow up medio di nove anni e correzione di una serie di fattori confondenti, a partire da comorbidità, età, sesso e attività fisica, i ricercatori hanno potuto verificare un rischio di mortalità prematura per tutte le cause superiore del 28% nel gruppo a consumo costante rispetto a quello “raro o assente”. Un rischio che si riduceva con l'assunzione di alimenti ricchi di potassio (frutta e verdura).
I ricercatori hanno anche quantificato la riduzione di aspettativa di vita in chi dichiarava l’abitudine di aggiungere costantemente sale alle pietanze a tavola, oltre quello utilizzato per cucinare o presente già nei cibi pronti, rispetto a chi non ne faceva uso: a 50 anni, un anno e mezzo in meno per donne e 2,28 per gli uomini. Le cause più frequenti di decesso correlate sono risultate quelle cardiovascolari, più per ictus che per malattia coronarica, e per cancro.
Il caso “scompenso cardiaco”
Il secondo studio, invece, pubblicato su Heart, pare andare in controtendenza. Si tratta di un’analisi post hoc del TopCat Trial, disegnato per valutare l’efficacia dello spironolattone nel trattamento dell’insufficienza cardiaca, nella sua forma a frazione di eiezione preservata. Ai partecipanti era anche stato chiesto quanto sale aggiungessero abitualmente agli alimenti durante la cottura, ottenendo così quattro fasce, da zero sino a mezzo cucchiaino o più. Il follow-up è durato tre anni. Endpoint primario: l’insieme complessivo di morte per malattie cardiovascolari o ricovero per scompenso o arresto cardiaco Secondari: morte per qualsiasi causa, morte per malattie cardiovascolari, ricovero per insufficienza cardiaca.
I risultati rivelano che punteggi superiori allo zero diminuivano significativamente i rischi dell'endpoint primario, in particolare sul fronte dei ricoveri per insufficienza cardiaca. Non si riduceva, però, il rischio di mortalità per qualsiasi causa o per malattie cardiovascolari rispetto a quelli il cui punteggio di sale da cucina era zero. Sotto i 70 anni, poi, i benefici dell'aggiunta di sale sembrano maggiori per quanto riguarda endpoint primario e ricovero per insufficienza cardiaca.
Consapevoli dei limiti di uno studio osservazionale come quello da loro condotto, che non consente conclusioni legate a un rapporto causa-effetto, i ricercatori, però, non esitano nel concludere che “l'eccessiva restrizione dell'assunzione di sale nella dieta potrebbe danneggiare i pazienti con insufficienza cardiaca a frazione di eiezione preservata e determinare una prognosi peggiore. I medici dovrebbero riconsiderare la possibilità di dare questo consiglio ai pazienti”.
Strazzullo (Sinu): troppo sale fa male
Abbiamo chiesto un commento a Pasquale Strazzullo, già ordinario di Medicina interna all’Università di Napoli Federico II e Past-president della Società italiana di nutrizione umana (Sinu): “L’evidenza scientifica degli effetti dannosi dell’abuso di sale è robustissima e incontrovertibile così come lo è la dimostrazione del beneficio che si riceve da una riduzione del consumo al di sotto del valore raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità, cioè meno di 5 grammi al giorno che includono sia il sale contenuto nei prodotti acquistati al supermercato, sia quello aggiunto per cucinare e poi ancora a tavola. Basti pensare all’effetto benefico sulla pressione arteriosa per chi è già iperteso e alla forte riduzione del rischio di diventare iperteso in futuro per chi oggi non lo è: tutto ciò è ampiamente dimostrato e innegabile. Il discorso, dunque, riguarda innanzitutto la prevenzione e, pertanto, le persone ancora sane. Laddove si è giunti, per lo più dopo molti anni di ipertensione spesso non ben curata, a condizioni di malattia severa, come è certamente l’insufficienza cardiaca, la parola passa dalle misure di prevenzione ai farmaci e, infatti, nello studio TopCat citato più sopra, tutti i pazienti ammessi al trial assumevano, probabilmente da anni, svariati farmaci, tra cui per oltre il 90% diuretici a dosi importanti. Da qui la domanda: come potevano aspettarsi i ricercatori di quello studio che una minore aggiunta di sale nel cucinare potesse avere un effetto rilevante in aggiunta a quello di potenti diuretici che servono appunto a eliminare l’eccesso di sale dall’organismo? E, addirittura, non mi meraviglio affatto che una restrizione di sale importante, in aggiunta all’uso massivo di diuretici, possa essere stata addirittura dannosa. Poiché non credo affatto che i ricercatori di quel trial siano stupidi, ritengo scorretto da parte loro non aver puntualizzato con sufficiente forza e chiarezza che quanto da loro osservato non si applica alla stragrande maggioranza della popolazione e non può essere utilizzato per mettere in dubbio l’efficacia e la necessità di ridurre il consumo di sale da parte di chi ha ancora la fortuna di essere sano o almeno non gravemente malato. Come dimostra infatti l’altro studio, condotto invece in ben mezzo milione di soggetti dell’Uk Biobank ancora indenni da gravi malattie, nei quali il beneficio di un minor consumo abituale di sale, anche se relativamente modesto, risulta nel tempo ben evidente. Ribadisco il concetto: abbassare il consumo di sale serve a prevenire le malattie di cuore e non solo, piuttosto che a rimediare a condizioni di salute già ampiamente compromesse”.
Nicola Miglino