Vitamina D e fratture, Giustina (S. Raffaele): prudenza sui dati del New England

30 Agosto 2022

Un’integrazione di vitamina D non serve a ridurre il rischio di fratture nelle donne over 50. Queste le conclusioni di uno studio pubblicato lo scorso luglio sul New England journal of medicine che ha provocato uno scossone tra gli addetti ai lavori, con Nicola Magrini, direttore generale dell'Agenzia italiana del farmaco, che ha annunciato una probabile revisione a breve della Nota 96 che già aveva determinato “un utilizzo più mirato di questo farmaco, producendo un risparmio di diverse decine di milioni l'anno". Magrini, inoltre, auspica una “campagna di sensibilizzazione” e “un nuovo un lavoro più stretto con le Regioni sull'ambito dell'appropriatezza prescrittiva”.

Cosa dice lo studio? Si tratta di un’analisi cosiddetta ancillare del trial Vital, disegnato per valutare il ruolo preventivo di acidi grassi omega-3 (1 g/die) e vitamina D (2.000 Ui/die) su cancro e malattie cardiovascolari in uomini over 50 e donne over 55. La nuova ricerca ha preso in esame l’azione preventiva di una supplementazione di vitamina D 2.000 Ui/die sul rischio frattura in un campione di 25.871 partecipanti, per il 50,6% donne, con un follow up di 5,3 anni. Il confronto era con placebo e il campione non era stato selezionato sulla base dei livelli ematici di vitamina D, piuttosto che di densità minerale ossea o presenza di osteoporosi. I risultati non hanno messo in evidenza nessuna differenza tra il gruppo attivo e il placebo nell’incidenza di fratture totali, non vertebrali o del bacino. Tra i limiti dello studio, riconosciuti dagli Autori, l’aver preso in considerazione un solo dosaggio di vitamina D e non aver considerato come criterio di selezione iniziale dei partecipanti eventuali stati di ipovitaminosi D. Infine, sottolineano come i risultati non possano essere fatti valere anche per adulti con osteoporosi o anziani in strutture residenziali.

Quali le implicazioni, dunque, di questo studio? Steven Cummings e Clifford Rosen, in un editoriale di commento sullo stesso numero della rivista, sottolineano come “si dovrebbero riconsiderare i termini di insufficienza o carenza di vitamina D. Il fatto che la vitamina D non abbia alcun effetto sulle fratture dovrebbe mettere la parola fine alle sue possibilità di impiego nella popolazione generale a questo scopo. L'aggiunta di questi risultati a quelli dei precedenti rapporti Vital e di altri studi che mostrano la mancanza di un effetto nella prevenzione di numerose condizioni, da quelle cardiovascolari, a quelle neurologiche o infettive, suggeriscono l’inutilità di screening per determinare i livelli ematici di 25-idrossivitamina D o di raccomandare un’integrazione per prevenire gravi malattie o prolungare la vita”.

Abbiamo chiesto un commento ad Andrea Giustina, direttore dell’Istituto di Scienze endocrine e metaboliche dell’Università Vita-Salute San Raffaele e Irccs Ospedale San Raffaele di Milano:

“Niente di nuovo sotto il sole. Purtroppo, i grandi trial, della cui schiera il Vital fa parte, nei quali tante speranze erano state riposte negli ultimi dieci anni per stabilire l’efficacia una volta per tutte della vitamina D su endpoint scheletrici ed extra-scheletrici sono miseramente falliti. Niente di personale con chi li ha condotti: colleghi nordamericani autorevoli e stimati che peraltro avevano già pubblicato i loro dati negativi sul New England nel 2018. Endpoint primari del Vital, infatti, erano gli effetti della supplementazione di vitamina D su tumori ed eventi cardiovascolari. Il paradosso, che non è quello scandinavo della vitamina D, sul quale, però, torniamo tra poco, sta più nella geografia che nella medicina. Infatti, i pochi che si potevano permettere di sostenere un trial di questa portata, sia per aspetti economici che organizzativi, erano proprio i ricercatori a stelle e strisce, ma nel loro Paese la carenza di vitamina D oramai non esiste quasi più. Moltissimi americani, infatti assumono supplementi di vitamina D e cibi con essa fortificati. Questa è, anche, sfortuna. Sì, perché la cosiddetta vitamina D è un vero e proprio ormone di natura steroidea, prodotto come pre-ormone, ovvero colecalciferolo, dalla cute esposta ai raggi solari e non ha purtroppo nessun senso clinico somministrare un ormone a chi non ne è carente: nessun endocrinologo si sognerebbe di somministrare ormone tiroideo a un soggetto non ipotiroideo, per esempio. Se va bene, questa pratica si rivela inefficace e se va male provoca effetti collaterali anche gravi. Ma dove finisce la sfortuna e dove iniziano i problemi metodologici? Il Vital ha arruolato 26 mila soggetti circa, senza preoccuparsi di quali valori di vitamina D avessero all’inizio dello studio, tanto che solo poco più della metà aveva eseguito un prelievo di sangue per il dosaggio della vitamina D. Errore fatale. Sapete quanti dei relativamente pochi soggetti in cui la vitamina D era stata misurata sono risultati carenti, cioè con livelli che le nostre conferenze di consenso giudicano gravemente deficitari, sotto ai 20 ng/ml? Il 12,7%: poco più di uno si dieci. Pare incredibile, ma così riportano gli stessi Autori. E c’è di più. Lo studio ha seguito i soggetti per circa cinque anni, ma uno straccio di misurazione della vitamina D non è mai riportato durante questo lunghissimo follow-up e sono moltissime le condizioni in cui, anche somministrando dosi ottimali di vitamina D, gli effetti sono attenuati, tra cui principalmente l’obesità, di dimensioni epidemiche in Nord America. Non a caso faccio riferimento all’obesità, dato che proprio gli stessi autori del Vital negativo riportarono due anni dopo su Jama open un’analisi post hoc che smentiva i loro stessi dati riportando un effetto protettivo della vitamina D sull’insorgenza di tumori nei soggetti normopeso. Naturalmente, non deve essere letta nessuna nota di biasimo nelle mie parole nei confronti dei colleghi. È assolutamente legittimo che ogni ricercatore desideri pubblicare i risultati delle sue ricerche in buona fede e riconoscendone in pieno i limiti. Sta poi, in primis, alla rivista scientifica che si avvale di revisori esterni deciderne la pubblicazione: raramente studi negativi come questo, strettamente imparentati con risultati già pubblicati, trovano spazio su riviste prestigiose come il New England. E sta alla comunità scientifica dare alla pubblicazione il peso che merita attraverso approfondita critica e discussione e, infine, al decisore trasferire questi dati nella pratica clinica di un Paese. A questo proposito permettetemi un’ultima serie di considerazioni. Purtroppo, e tristemente, su tematiche di fondamentale importanza per la salute spesso assistiamo al radicalizzarsi di posizioni a favore o contro una determinata materia: pro vax vs no vax, ma anche proD vs noD e con associazioni ardite tipo pro vax e noD. Questo non ha nulla a che fare con il metodo scientifico, ma solo con la strumentalizzazione di evidenze scientifiche a fini ideologici. E in questo preciso contesto si pone la lettura dell’editoriale del New England a commento dei dati Vital da parte di stimati colleghi e amici che, con una certa ansia da prestazione, si affrettano a definire i dati dello studio il verdetto finale sull’inutilità della vitamina D. Il mio consiglio a tutti, inclusi gli editorialisti di New England e le nostre Autorità regolatorie è di essere prudenti. Dati epidemiologici italiani dimostrano come la carenza di vitamina D sia ampiamente diffusa sul nostro territorio, molto più che quel dieci per cento del Vital, e i nostri studi sulla popolazione Covid-19 lo confermano in modo incontrovertibile. Massima cautela, quindi, nel trasferire dati americani così poco affidabili nel nostro Paese che, prima di ulteriormente restringerne l’uso, deve ancora compiere un lungo percorso di prevenzione dell’ipovitaminosi D pensando a misure concrete e simili ai Paesi scandinavi, dove sussiste il paradosso della mancanza di sole con i livelli più alti di vitamina D nella popolazione grazie alla fortificazione dei cibi. Sento spesso parlare della vitamina D come farmaco. Consiglio prudenza anche su questo. Prima di prendere decisioni affrettate e potenzialmente pericolose, mi permetto, quindi, di consigliare di affrontare il problema dell’ipovitaminosi D nel nostro Paese in modo organico, dalla prevenzione con cibi fortificati, all’individuazione, con l’ausilio della comunità scientifica, di strumenti semplici su base anamnestico-clinica da fornire alla medicina del territorio per individuare i soggetti più a rischio di e quindi meritevoli di un dosaggio dell’ormone che ne confermi la carenza e quindi l’indicazione al trattamento evitando costosi e, forse, inutili screening di massa”.

Nicola Miglino

 

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