Alzheimer: indizi di protezione da vitamina B e D

14 Marzo 2023

Due recenti studi hanno messo in evidenza un potenziale ruolo protettivo di vitamina B e D ne confronti del rischio demenza e declino cognitivo.

Il primo, pubblicato su Alzheimer’s and dementia: diagnosis, assessment & disease monitoring, ha messo sotto osservazione i dati di 12.388 persone inizialmente sani, afferenti al National Alzheimer's coordinating center di Seattle.

Di questi, il 37% aveva assunto un’integrazione di vitamina D. A 5 anni, l’83,6% di chi aveva ricevuto la supplementazione era ancora vivo e senza segni di demenza. Lo stesso, per il 68,4% di chi non aveva ricevuto nulla.

A dieci anni, invece, il 22% dei partecipanti aveva sviluppato demenza, nel 75% dei casi tra chi non aveva assunto alcun tipo di integrazione.

Nel gruppo “integrazione”, il 14,6% ha ricevuto diagnosi di demenza, rispetto al 26% dei controlli. Una volta corretto staticamente il dato rispetto a potenziali fattori confondenti quali, per esempio, età, sesso, depressione, presenza di ApoE ε4, (variante genica correlata a decadimento cognitivo), le conclusioni indicano una riduzione del rischio del 40% tra chi aveva ricevuto una supplementazione di vitamina D e chi no, con particolare evidenza nel sesso femminile, ove il rischio si riduceva del 49%, mentre nei maschi del 26%.

Nel secondo studio, pubblicato su Aging cell, si è andati a indagare l’effetto di una supplementazione con vitamina B3 sul metabolismo energetico delle cellule nervose, compromesso in caso di Alzheimer.

In particolare, ci si è concentrati sul ruolo della Nicotinammide adenina dinucleotide (Nad+), molecola essenziale alle cellule per la produzione di energia, con prove in letteratura del fatto che un suo esaurimento sia correlato a invecchiamento e decadimento della funzione cerebrale.

Lo studio, randomizzato e in doppio cieco, ha coinvolto 22 adulti. Per sei settimane, 10 hanno ricevuto una supplementazione di nicotinamide riboside, (500 mg, Bid), una forma di vitamina B3 che funge da precursore del Nad+. Gli altri 12, placebo.

A fine test, i ricercatori sono andati a misurare le concentrazioni di Nad+ nelle vescicole extracellulari plasmatiche di derivazione neuronale, riscontrando un piccolo ma significativo aumento, contestualmente alla diminuzione di altri biomarcatori correlati, invece, a infiammazione e resistenza insulinica, oggi noti come marker di demenza.

Dal tipo di indagine, non è chiaro se il supplemento abbia attraversato la barriera emato-encefalica e se questi cambiamenti siano avvenuti nelle cellule cerebrali. “Quello che sappiamo, però, è che l'integrazione si traduce in un aumento del Nad+ all'interno di minuscole vescicole che probabilmente hanno avuto origine nel cervello e in altri tessuti neurali", sottolinea Christopher Martens, director of the Delaware center for cognitive aging research di Newark e prima firma dello studio.

“Una delle grandi sfide in corso è determinare se il composto può raggiungere con precisione il bersaglio molecolare. Non abbiamo prove dirette, ma i risultati del nostro lavoro suggeriscono che un effetto sul cervello c’è e che si determinano cambiamenti in pathway metabolici correlati con l’Alzheimer”.

Nicola Miglino

 

 

 

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