Psicobiotici: così correggeremo le alterazioni dell’asse intestino-cervello

10 Giugno 2024

In collaborazione con Yakult Italia

Correva l’anno 1998, quando l’americano Michael D. Gershon, docente alla Columbia University di New York, coniò per primo la definizione di “Intestino secondo cervello”. Da allora, molti studi si sono concentrati sulla correlazione tra i due organi, più recentemente sul ruolo giocato dal microbiota intestinale in questa interazione e su come poter intervenire nel correggere stati di disbiosi, potenzialmente implicati in patologie ora a carico dell’intestino, ora del sistema nervoso centrale.

A fare il punto con noi, in occasione del suo intervento al congresso Brain&Malnutrition tenutosi di recente a Milano, Fabio Pace, direttore UOC di Gastroenterologia, ASST BG EST, Seriate (Bg).

Dr. Pace, l’asse microbiota-intestino-cervello rappresenta un cambio di paradigma scientifico nella neurogastroenterologia. In quali disturbi/patologie ci fornisce utili informazioni?

La comunità scientifica da almeno vent'anni sta studiando le correlazioni molto strette tra l'intestino e il cervello. C'è tutta una pubblicistica che risale a quando Michael Gershon cominciò a definire, alla fine degli anni Novanta, l’intestino come il nostro secondo cervello. Proprio in quella fase si comincia a scoprire, infatti, che l'intestino possiede circa il 10% del patrimonio neuronale di tutto l'organismo. Viene poi alla luce che un particolare neurotrasmettitore, la serotonina, è contenuta per oltre il 90% nell'intestino. Vengono così a formularsi domande che riguardano la genesi di alcuni particolari disturbi intestinali, ma anche psichici. Per esempio, ci si interroga se l'ansia o la depressione siano malattie a origine intestinale con un riverbero cerebrale o, viceversa, per quanto riguarda l’intestino irritabile o la dispepsia. Da circa sei anni, in questi casi, non si parla più di disturbi funzionali, ma appunto di disturbi dell'interazione tra intestino e cervello: un vero cambio di paradigma, perché una volta si pensava che i disturbi intestinali nascessero lì e così anche per quelli psichici, allocati a livello cerebrale.  

Che ruolo gioca il microbiota intestinale?

In questo scenario, tutto è diventato più complesso, ma sicuramente più intrigante e stimolante sul piano culturale, quando fa la sua comparsa un terzo attore, cioè il microbiota intestinale. Parliamo di un consorzio di microrganismi che abita nel nostro intestino e che ci fornisce un’amplificazione enorme di geni, vitali per l’Homo sapiens che li utilizza per moltissime operazioni metaboliche e funzionali non possibili altrimenti. Da qui il concetto di olobionte, a intendere l’insieme dell’essere umano e del suo microbiota come un unico e complesso organismo.

In che modo il microbiota intestinale interferisce sull’asse intestino-cervello?

Le modalità sono diverse. In prima battuta, il microbiota intestinale produce sostanze, come neurotrasmettitori e molecole di segnale, che viaggiano attraverso la circolazione generale, passano la barriera ematoencefalica e raggiungono i centri corticali e sottocorticali. Un'altra modalità è attraverso l'asse ipofisi-ipotalamo-surrene, cui il microbiota trasmette informazioni che ne modulano l’attività. Vi è poi un’attività sul sistema endocrino, nel controllo della liberazione degli ormoni e, infine, quella sul nervo vago: il microbiota che risiede nell'intestino riesce a sensibilizzare le terminazioni nervose mucosali e a inviare segnali alle fibre nervose che connettono la mucosa dell'intestino, il midollo spinale e raggiungono i centri superiori.

Da qui, allora, il termine di psicobiotici? Si tratta di una definizione scientificamente approvata?

L’esistenza di questo legame diretto tra intestino e cervello ha indotto la comunità scientifica a pensare che interventi in grado di modellarlo ai fini di attutire alcune patologie intestinali o cerebrali avrebbero potuto rappresentare un'arma in più di intervento. Da qui, una decina di anni fa, è stato coniato il termine di psicobiotici, a intendere, in una prima definizione, quei probiotici di derivazione umana che, assunti per bocca in quantità adeguata, potessero fornire un vantaggio ai pazienti con patologie psichiche.

Questa definizione iniziale, poi, è stata nel tempo modificata in due modi. Innanzitutto, non si parla più solo di patologie psichiche, ma anche neurodegenerative quali, per esempio, Parkinson, Alzheimer o sclerosi multipla. In secondo luogo è stata aggiunta, alla categoria dei probiotici, anche quella dei  prebiotici, intendendo tutte quelle fibre alimentari indigeribili per l’Homo sapiens e che, invece, il microbiota riesce a modificare e a trasformare in cibo per i batteri intestinali. Oggi, si tende a usare il termine di psicobiotici in questa accezione più ampia.

Quanto è attiva la ricerca in quest’ambito?

La ricerca si sta fortemente indirizzando sia verso il settore neurodegenerativo sia verso quello psichiatrico e, in effetti, in queste due aree abbiamo un proliferare di moltissimi studi su modelli animali che ci hanno fornito la plausibilità del meccanismo d'azione, ma anche piccoli studi sull’uomo. Mancano, purtroppo, mega trial o, addirittura revisioni sistematiche o metanalitiche.

Qualche dato dagli studi sull’uomo?

Cominciano ad affiorare indicazioni molto positive sull'utilizzo di psicobiotici nel contrasto dell'ansia e dello stress. Tra i probiotici più studiati, segnalo Lacticaseibacillus paracasei Shirota (L. casei Shirota, LcS, ndr) perché, pur non essendo definibile integralmente come psicobiotico, non possedendo le caratteristiche di universalità d'azione, ha dimostrato, in studi svolti e in altri in corso, di esercitare un'azione assolutamente interessante, in particolar modo sullo stress acuto e nella modulazione dell'ansia. Pensiamo, per esempio, ai risultati di uno studio pubblicato qualche anno fa che ha coinvolto studenti universitari giapponesi.

In Giappone il sistema universitario è diverso dal nostro: gli esami si danno tutti alla fine dell'anno accademico, in una sola sessione, senza possibilità di recupero. Immaginiamo, dunque, il carico di stress che assale i candidati. Nello studio, randomizzato, in doppio cieco e controllato con placebo, un braccio ha assunto una bevanda a base di latte fermentato con L. casei Shirota (LcS) per 8 settimane mentre l’altro braccio un placebo.  Sono stati misurati gli ormoni dello stress, in particolare il cortisolo salivare, nonché si è effettuata una valutazione psicologica prima, durante e dopo le prove di esame. Ebbene, il gruppo che aveva assunto il probiotico ha mostrato una riduzione dello stress, anche in termini biochimici.

Per concludere: quai sono i filoni di ricerca più interessanti del prossimo futuro?

In ambito psichiatrico, ci sono dati significativi per quanto riguardo l’uso di psicobiotici nel controllo dell’ansia. Meno, invece, sul fronte depressione. Nel campo delle patologie neurodegenerative, abbiamo moltissimi studi che sono stati compiuti sul Parkinson e sull'Alzheimer. Qui il problema di fondo è che l'esistenza di una disbiosi e, quindi, di un'alterazione della comunicazione tra intestino e cervello, è sicuramente dimostrata, ma non sappiamo se rappresenta la causa o l'effetto della malattia, un problema di molte patologie croniche degenerative, non solo in ambito neurologico. Il secondo punto è che l’alterazione disbiotica può essere diversa da paziente a paziente, con la difficoltà, per noi clinici, nel trovare la cosiddetta firma microbica in queste patologie. Al momento ritengo questo un limite della sperimentazione, perché utilizzare un probiotico tout court in queste situazioni non necessariamente può rappresentare la strategia più indicata. Non credo, però, che ci vorranno tempi biblici per superare questo gap: probabilmente entro pochi anni, con la medicina di precisione o, meglio, con la probiotica di precisione, saremo in grado di individuare, in ogni singolo soggetto, il pattern disbiotico specifico, correggendolo con il probiotico più indicato.

A cura della redazione

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