Lancet: sale e scompenso cardiaco non più nemici?

27 Aprile 2022

Stanno facendo molto discutere i dati provenienti da uno studio internazionale multicentrico, pubblicato a inizio aprile da The Lancet, secondo i quali non c’è correlazione tra maggior consumo di sale e peggioramento clinico nei pazienti con scompenso cardiaco. Miglioramenti si segnalerebbero soltanto sul fronte di alcuni indicatori legati alla qualità di vita.

Lo studio in questione si chiama Sodium-Hf e ha coinvolto circa 800 pazienti in 26 centri tra Canada, Stati Uniti, Colombia, Cile, Messico e Nuova Zelanda. Tutti avevano una diagnosi di insufficienza cardiaca, con un’età media di 67 anni, in cura secondo le linee-guida dei rispettivi paesi.

Sono stati suddivisi in due gruppi: la metà è stata assegnata in modo casuale a ricevere le cure abituali, mentre il resto ha ricevuto consigli nutrizionali e culinari per ottenere un apporto giornaliero di sale inferiore a 1,5 g.

Obiettivo principale, a 12 mesi, era verificare il numero di ricoveri, piuttosto che di accessi al pronto soccorso se non decessi dovuti a cardiopatia. In secondo luogo, si è anche voluto verificare se vi fossero miglioramenti su qualità di vita e classi di appartenenza al Nyha, il sistema di stratificazione della gravità dello scompenso cardiaco.

Confrontando le misurazioni al tempo zero e a 12 mesi, il gruppo attivo ha ridotto l’assunzione giornaliera di sale mediamente da 2,286 a 1,658 g, il controllo da 2,119 a 2,073. Da un punto di vista clinico, non si sono evidenziate differenze significative sui tre parametri presi in esame, ovvero ricoveri, accessi in pronto soccorso e morti.

Miglioramenti significativi, invece, per chi aveva seguito una dieta iposodica sul fronte di alcuni sintomi quali gonfiore, affaticamento e tosse, e nella scala Nyha, con salto di una classe.

“L'insufficienza cardiaca porta a ritenzione di sodio e acqua ed è per questo che la restrizione dietetica di sale è ritenuta utile per prevenire il sovraccarico di liquidi”, sottolinea Justin Ezekowitz, co-direttore del Canadian Vigor Centre di Alberta e coordinatore dello studio. “Tuttavia, su questo fronte gli studi clinici finora hanno mostrato risultati contrastanti. Il nostro è il più grande trial clinico randomizzato che esamina la relazione tra riduzione di sodio nella dieta e insufficienza cardiaca. Sulla base dei risultati non possiamo più dare una raccomandazione generale a tutti i pazienti di limitare l'assunzione di sodio come strategia di prevenzione di eventi cardiovascolari, ma di certo è un sistema efficace di migliorare la qualità della vita. Personalmente, continuerò a consigliare ai miei pazienti con insufficienza cardiaca di ridurre il sale, ma ora mi sono più chiari i benefici attesi”.

Due i principali limiti della ricerca, riconosciuti dagli Autori. Innanzitutto, il disegno in aperto e non in cieco. La durata, poi, di soli 12 mesi, probabilmente non sufficiente per vedere effetti clinici sul lungo termine. Su queste basi, il team effettuerà ulteriori studi per cercare di isolare, innanzitutto, un marcatore nel sangue tra chi ha beneficiato maggiormente della dieta a basso contenuto di sodio, con l'obiettivo di poter fornire prescrizioni dietetiche individuali mirate. Ulteriore obiettivo, poi, seguire i pazienti a due e cinque anni per verificare i risultati nel lungo termine.

Nicola Miglino

 

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