Inquinanti obesogeni: ecco gli agenti a rischio

21 Aprile 2023

Cosa c’è di vero nell’ipotesi che vi possano essere sostanze “obesogene” alla base dell’incremento di peso sempre più diffuso nella popolazione adulta, ma pure infantile e adolescenziale? Lo abbiamo chiesto a quattro tra i maggiori specialisti italiani nella ricerca e nella cura dell’obesità: Massimo Scacchi, direttore del Laboratorio di ricerche metaboliche di Auxologico Piancavallo; Simona Bertoli, Ordinario di Scienze dietetiche applicate all’Università degli studi di Milano; Amelia Brunani, direttore Uo Medicina riabilitativa di Auxologico Piancavallo; Alberto Battezzati, direttore Uo Nutrizione clinica - Auxologico Città Studi Icans.

Prof. Scacchi, cosa si intende per sostanze obesogene e perché sono pericolose per la salute?
L’ipotesi che una esposizione prenatale o nei primi anni di vita a sostanze obesogene possa determinare accumulo di tessuto adiposo e incremento ponderale è stata formulata nel 2006 da Grun e Blumberg. Studi in modelli animali hanno dimostrato che alcuni inquinanti ambientali sono in grado di favorire la differenziazione di cellule staminali in adipociti, nonché di aumentare il deposito di lipidi in ciascuna cellula adiposa. Sono inoltre in grado di alterare i processi endocrini che regolano lo sviluppo del tessuto adiposo, ma anche fame e sazietà, scelta degli alimenti, spesa energetica a riposo e bilancio energetico.

Ci fa qualche esempio?
Studi prospettici nell’uomo hanno dimostrato l’associazione fra elevati livelli circolanti di Ddt durante la gravidanza e sviluppo di obesità nella prole, mentre altri studi hanno fallito la dimostrazione di nessi epidemiologici. Gli ftalati, presenti nella plastica, sono noti interferenti endocrini, con i loro effetti debolmente estrogenici e anti-androgenici. Inoltre, sono state riscontrate correlazioni fra elevate concentrazioni di ftalati urinari da un lato e marker di malattia cardiometabolica e obesità dall’altro. D’altro canto, non tutti gli studi che hanno valutato esposizione prenatale agli ftalati e Bmi in età pediatrica hanno mostrato valide correlazioni.
L’atrazina, erbicida grandemente utilizzato negli Usa è in grado di danneggiare la funzione mitocondriale, inducendo insulino-resistenza e favorendo l’incremento ponderale. La tributiltina, ampiamente utilizzata nelle pitture per natanti, favorisce la differenziazione di preadipociti in adipociti.
Fra gli organofosfati, si annoverano insetticidi, erbicidi e antielmintici. La prolungata esposizione a tali sostanze è in grado di alterare il microbioma intestinale dei topi, favorendo incremento ponderale e insulino-resistenza.
Per quanto riguarda il glutammato monosodico, impiegato dall’industria alimentare per la preparazione di patatine, snack salati, cibi congelati e salse, studi su ampie popolazioni cinesi hanno dimostrato un rischio di sviluppo di sovrappeso 1,33-2,75 volte maggiore nei forti consumatori di tale sostanza.
Inoltre, studi nell’uomo hanno dimostrato una associazione fra biossido di azoto, uno dei gas che maggiormente contribuiscono all’inquinamento dell’aria, e livelli circolanti di lipidi nei soggetti obesi.

P.ssa Bertoli, tra le principali sostanze imputate sembra farla da padrone il Bisfenolo: di cosa si tratta?
Il Bisfenolo A, o Bpa, è un contaminante ambientale ubiquitario responsabile di interferenza endocrina associata ad aumentato rischio di malattie cronico degenerative e, in particolare, di obesità e diabete. È entrato, per così dire, nella nostra dieta a partire dagli anni Cinquanta, quando i chimici scoprirono che le molecole di Bpa potevano essere polimerizzate per produrre plastica policarbonata, che divenne presto un composto di base nella produzione della resina che riveste le lattine per alimenti e bevande e utilizzata nei contenitori degli alimenti. L’Efsa ha da poco pubblicato una valutazione sulla sicurezza del Bpa, riducendo significativamente la soglia di assunzione giornaliera tollerabile rispetto a quanto era stato precedentemente stabilito. In una revisione della letteratura condotta dai ricercatori di Irccs Auxologico ha evidenziato che i livelli plasmatici di Bpa sono risultati correlati con il grado di obesità e con la distribuzione addominale del grasso, condizione che aumenta fortemente il rischio di sviluppare diabete e malattie cardiovascolari.

D.ssa Brunani, tutti i soggetti possono subire danni da tali sostanze o c'è una suscettibilità individuale?
La relazione tra fattori ambientali e genetica da tempo è stata dimostrata influire sullo sviluppo di diverse patologie croniche, tra cui l’obesità. Uno dei meccanismi d’azione dei cosiddetti interferenti endocrini è quello di modificare l’espressione di alcuni geni favorendo, per esempio, l’insulino resistenza o la produzione di enzimi con effetti metabolici, fattori di rischio per lo sviluppo di obesità. La presenza di alcuni polimorfismi degli stessi geni può produrre una diversa risposta all’esposizione delle sostanze tossiche. Inoltre, a livello periferico tali sostanze tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo, incrementano i fattori di crescita del tessuto adiposo e vengono rilasciate in circolo durante la perdita di peso aumentandone la tossicità. Da un punto di vista clinico rimane comunque difficile stabilire gli effetti a livello molecolare e l’influenza sullo stato di salute derivante dall’esposizione delle sostanze in oggetto poiché le risposte appaiono individuali più che di popolazione. Alcuni studi evidenziano anche un effetto maggior nel sesso femminile per un’interferenza sulla espressione di geni coinvolti nella produzione di estrogeni.

Quali evidenze abbiamo di una predisposizione genetica alla sensibilità verso queste sostanze obesogene?
Se i dati a favore di un effetto da parte degli interferenti endocrini sulla predisposizione genetica all’obesità esistono negli studi soprattutto su modelli animali, dobbiamo anche segnalare che, secondo i dati della Fao, la mappa mondiale dei Paesi con maggior inquinanti ambientali, quali Cina e India, di fatto non coincide con quella dell'obesità, prevalente negli Stati Uniti, a testimoniare un legame non molto stretto. I fattori ambientali quali alimentazione e attività fisica sembrano ancora avere un peso maggiore nella prevenzione e controllo dell’obesità.

Prof. Battezzati, cosa si può fare e cosa si sta facendo per contenere i danni?
Si può limitare l’esposizione a queste sostanze attraverso interventi diretti all’ambiente e modificazioni dei comportamenti individuali. I contenitori e i materiali con cui un alimento viene a contatto durante le fasi di produzione, conservazione e distribuzione sono passaggi critici che il consumatore non può realmente controllare. L’Efsa, come abbiamo visto, si è mossa in questa direzione in maniera estremamente decisa perché ha recentemente pubblicato un parere scientifico che stabilisce un nuovo limite di esposizione giornaliera al Bpa, uno dei più importanti interferenti endocrini, che è 20 mila volte inferiore a quanto aveva stabilito solo nel 2015. 
Ci si può chiedere quali scelte alimentari prediligere per minimizzare l’esposizione al Bpa.  I cibi inscatolati e le bevande in lattina e bottiglia di plastica sono quelli maggiormente a rischio di contaminazione.  Il trasferimento del Bpa a cibi e bevande è maggiore per gli alimenti grassi, acidi, conservati più a lungo ed esposti a temperature più elevate durante la conservazione. In linea di massima una sana alimentazione ricca di frutta e verdura ed alimenti poco processati non solo permette di trattare l’obesità e le patologie metaboliche associate, ma anche di ridurre l’esposizione agli interferenti che le favoriscono.

Nicola Miglino

 

 

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